articoli sociali
Lavoro gratis in famiglia
Cose da… TRIBUNALI!
Potrebbe capitare anche a noi…
di lavorare (gratis) per la famiglia, in famiglia o nell’impresa di famiglia
Meno male sono lontani i tempi in cui saltava in mente a qualche avvocato difensore di marito separando di chiedere l’addebito della separazione alla moglie colpevole di essersi procurata un lavoro. Erano gli anni 80 quando la Cassazione (sez. I, 21.10.1980 n. 5641) affermava “Nel giudizio di separazione personale non può costituire alcun addebito per la moglie il fatto che costei – pur quando non ne abbia bisogno economico essendo il marito disposto a mantenerla al livello da lei desiderato – voglia affermare la propria personalità in un onesto lavoro retribuito o altra attività anche impegnativa quanto e più di quella del marito stesso, quando ciò non comprometta irreparabilmente l’unità della famiglia ovvero sia conforme all’indirizzo della vita familiare concordato dai coniugi prima o dopo il matrimonio (art. 144 c.c.) e non pregiudichi in modo apprezzabile, per l’eccessiva assenza materna da casa, lo sviluppo psico-fisico dei figli”.
Scegliere di (o essere costrette dalla necessità a) lavorare fuori casa, però comporta “un doppio lavoro”. La maggior parte delle donne che produce reddito al pari del marito, rispetto a quest’ultimo, per costume, abitudini storiche e mentalità, ha anche l’onere esclusivo dei lavori domestici e la non trascurabile cura dei figli.
Per una donna conciliare famiglia e lavoro è faticoso, ma in caso di interruzione del rapporto matrimoniale, almeno più contare sul suo lavoro. Al contrario, se, dopo aver “cresciuto figli e marito” si ritrova, non più giovanissima, separata e poi divorziata, trovare un lavoro è un’impresa quasi impossibile. Eppure di lavoro ne ha fatto in casa ma quello all’improvviso “evapora” e pare che i mariti dimentichino facilmente che quello che si ritrovano è anche grazie alla collaborazione della moglie. Una recentissima della Suprema Corte di Cassazione (sez. I, 14.01.08 n. 593) ribadisce un principio, già esistente nella legge sul divorzio, secondo cui il lavoro domestico svolto va riconosciuto e come tale il criterio di individuazione di un assegno divorziale ne deve tener conto. Anche la legge 54/06 ha introdotto più specificamente il concetto della considerazione ai fini dell’assegno di mantenimento della valutazione della “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.
Tutto ciò in caso di rottura del rapporto coniugale: ma durante il rapporto coniugale? La nostra Carta Costituzionale prevede che il lavoro svolto vada sempre retribuito, ma nell’ambito della famiglia non è così. Un cultore della materia (Gianfranco Dosi) esprime così il suo disappunto: “la donna che lavora in casa è casalinga per obbligo legale se sposata e per obbligo morale se convivente. In nessuno dei due casi può aspirare ad una remunerazione”.
La discriminazione emerge in modo inaccettabile quando diamo un’occhiata al lavoro della donna nell’impresa di famiglia. Ci son voluti anni prima di arrivare nel 1975 alla riforma del diritto di famiglia che introduceva la presunzione di onerosità delle prestazioni lavorative nell’ambito della famiglia o dell’impresa familiare. Lo “scandalo” è che per quanto esista l’art. 36 Cost. che stabilisce il principio dell’obbligatorietà della retribuzione in proporzione al lavoro svolto, se questo lavoro viene svolto nell’ambito di un’impresa di famiglia da un convivente di una famiglia di fatto, questi non può pretenderne il pagamento. Secondo la Cassazione (sez. II, 29.11.04 n. 22405) presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230 bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza (famiglia “di fatto”), trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica. Cosa dire se non che a rigor di legge è spiegabile ma a rigor di logica e buon senso è intollerabile? In nome della “parità” si parla addirittura di matrimoni tra omosessuali e si dimentica di parificare il lavoro che una donna fa per l’impresa del suo compagno a quello che una moglie fa per l’impresa di sua marito.
Troppo miele fa male!
Cose da… TRIBUNALI!
Potrebbe capitare anche a noi…
di finire davanti ad un giudice perché mangiamo troppo miele!
Capitava ad un signor molto facoltoso – al punto tale che viveva in una suite di un famoso albergo – e che aveva una passione per il miele. Il signore però, oltre che tanti soldi, aveva il diabete. Così un giorno il Distretto di Salute Mentale ricorreva al giudice tutelare adducendo che il signor C. era affetto da “disturbo delirante cronico nonché da una forma grave di diabete, a causa della quale aveva subito l'amputazione di un avampiede e si trovava nella sostanziale impossibilità di provvedere alla propria salute ed anche ai propri interessi”. A seguito di ciò il Giudice Tutelare si recava presso il sig. C. ed appurava che presentava un “evidente quadro di ideazione delirante con tematiche di grandezza con negazione della malattia diabetica al punto che dichiarava alimentarsi prevalentemente con miele di cui mostrava numerosi contenitori”. Su questi presupposti il giudice nominava un “amministratore di sostegno” il quale confermava le patologie indicate ed evidenziava l’esistenza di “un cospicuo e mal gestito patrimonio”. A seguito di ciò riceveva mandato dal giudice di verificare la possibilità che C. acconsentisse ad un ricovero e/o inserimento presso un pensionato ove sottostare alle varie terapie. Il sig. C. si rifutava e su tali premesse l’Amministratore chiedeva autorizzazione “ad intraprendere tutte le iniziative che si renderanno necessarie al fine di attuare l’inserimento del sig. C. in una struttura protetta del circondario, ove lo stesso possa seguire le cure e le terapie, anche alimentari, assolutamente necessarie e vitali, nonché autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto del beneficiario, il consenso informato ai trattamenti terapeutici proposti dai medici, se ed in quanto richiesto e/o necessario, ovvero adottare tutti i provvedimenti urgenti necessari a tale scopo”. Il Giudice Tutelare sulla base della situazione di fatto e di diritto verificata, “dato atto dell'incapacità di C. di esprimere un valido consenso all'indispensabile sottoposizione a cure e terapie antidiabetiche, autorizza l'Amministratore di sostegno a porre in essere, in nome e per conto del beneficiario, tutte le iniziative che si renderanno necessarie al fine di attuare l'inserimento di C. in una struttura protetta del circondario, ove lo stesso possa seguire le cure e le terapie, anche alimentari, assolutamente necessarie e vitali; autorizza altresì l'amministratore di sostegno ad esprimere, in nome e per conto del beneficiario, il consenso informato ai trattamenti terapeutici proposti dai medici, se ed in quanto richiesti e/o necessari, ponendo in essere ogni iniziativa conseguente. Determina, allo stato, la durata dell'incarico all'Amministratore per il tempo di mesi sei dalla data odierna e dispone che l'Amministratore relazioni per iscritto entro un mese da oggi sullo stato di salute del beneficiario nonché sui risultati delle indagini in ordine al patrimonio di esso con riserva di demandare, all'esito e all’amministratore, il compito di porre in essere gli atti che appariranno necessari. Concede efficacia immediata al presente decreto. (G.T. dr Guido Stanzani - Tribunale di Modena, 15 settembre 2004)”.
Dopo la lettura di questo caso viene di chiedersi dove inizia e dove finisce la libera determinazione che pensiamo di avere. Forse qui si può trovare giustificazione nel fatto che il sig. C. godeva di malferma salute mentale, e dunque non era forse completamente consapevole di scegliere della sua esistenza, ma purtroppo ci sono anche casi in cui genitori che hanno lavorato una vita si ritrovano davanti ad un giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno, perché i figli ritengono che stanno dilapidando il patrimonio che dovrebbero conservare (a loro) ed il giudice stabilisce che devono vivere con 4.000,00 al mese non di più! Certo un giudice potrebbe cambiarci la vita… ma del figlio che si rivolge al giudice, viene di pensare, con la vecchia saggezza popolare, che è più proficuo dedicarsi all’allevamento di suini!!!
Contestazioni insegnanti e diffamazione
Cose da… TRIBUNALI!
Potrebbe capitare anche a noi…
di essere denunciati per diffamazione perché contestiamo il comportamento dell’insegnante di nostro figlio.
Alcuni genitori inoltravano esposto al Provveditore agli Studi di Sassari censurando il comportamento di un’insegnante che “nel corso dell’anno scolastico non aveva fornito agli studenti il necessario supporto didattico; che aveva contribuito a creare negli studenti problemi di natura psicologica a causa degli atteggiamenti arroganti tenuti, corredati talvolta da espressioni non proprio civili e alle disparità di trattamento riservate agli alunni, specie di sesso maschile; che nell’esercizio della sua attività aveva omesso le interrogazioni durante l’anno scolastico e le aveva talvolta sostituite con prove scritte, del cui esito gli alunni erano stati informati solo in occasionali colloqui”.
L’insegnante denunciava i genitori ritenendo che costoro l’avessero, con tale azione, diffamata, ma sia il giudice di primo grado che quello d’appello assolvevano i genitori “per aver agito nell’esercizio di un diritto”.
L’insegnante non si dava per vinta e ricorreva per cassazione della sentenza.